Un disastro ambientale: Seveso

Alberi inariditi, il raccolto dei campi “bruciato”, animali gonfi e morti, bambini con il viso deturpato: è la diossina, è Seveso.

Ci sembra giusto ogni tanto fare esercizi di memoria, per non dimenticare.

Oggi dedichiamo questa pagina alla tragedia avvenuta il 10 luglio 1976 a Seveso, riportando un piccolo capitolo del libro testimonianza “Seveso la tragedia della diossina” di M. Galimberti, G. Citterio, L. Losa e F. Cantù.

Dal libro “Seveso la tragedia della diossina” di M. Galimberti, G. Citterio, L. Losa e F. Cantù – I giorni della tragedia, di Mario Galimberti

La chiamavano la fabbrica dei profumi

L’avevo vista per la prima volta quel 16 luglio 1976.
Prima di allora, pur abitando in queste terre ai confini tra la Brianza e le Groane, non l’avevo mai notata.
Si chiamava ICMESA, alias GIVAUDAN, alias HOFFMAN-LA ROCHE . . . .

Io, Mario Galimberti, ero stato il primo cronista ad essere informato del fatto: l’unico, col fedele fotografo Pierino Vismara, che sotto il sole estivo di quel mattino vagava nella zona “calda”, ancora ignaro di tutto per rendermi conto di cosa fosse veramente accaduto. In quella circostanza il mio è stato il lavoro necessariamente più minuzioso e di conseguenza più chiacchierato e, alternativamente, approvato o criticato.
Ma a ciò non ho badato: la mia era una caccia alla notizia ed in questo caso ad una notizia sulla quale bisognava “buttarsi” con una grande serietà professionale perché era l’essere umano e la natura che si è voluto distruggere a Seveso e dintorni, per soddisfare la febbrile esigenza di un progresso che non ha confini né limiti.
Di rado si scrive quello che si desidera; di solito si è costretti a raccontare la realtà, anche se amara.
Ed è proprio da qui che inizierò questa “cronaca” della diossina, costretto a fare il ficcanaso per il bene, almeno spero, di un domani migliore, ricordando quanto ha già sofferto la gente colpita dalla fabbrica dei “profumi”.
Prima però di entrare nel vivo della cronaca, giorno per giorno, penso che valga la pena di raccontare quello che è accaduto il giorno antecedente il mio arrivo nella zona inquinata.

La sera del 15 luglio, ore 20, ricevevo la telefonata di un amico che mi avvertiva di alcune disposizioni emanate dalle autorità comunali di Seveso che vietavano i consumi dei prodotti e dei raccolti della zona. Una vampata di “qualcosa” (oh! poveri noi) che era uscita dal reattore della Icmesa celava una sostanza velenosa sospetta.
Quel fungo, bianco o nero come lo si voglia, innalzatosi nel cielo sabato 10 luglio alle ore 12,37 che aveva fatto arrossire gli occhi e il viso di alcuni bambini e adulti, ma che era stato dimenticato, col solito menefreghismo che ci distingue usando la solita alzata di spalle (“tanto succedeva spesso”, dirà poi la gente di qui), ignorato per giorni, poteva essere diverso dal solito inquinamento di cui va pieno la penisola Italiana.
Io stesso ho tentennato quella sera e dovendo decidere se accorrere subito o rimandare al domani, optai per la seconda ipotesi. Anch’io ho sbagliato perché se mi fossi reso conto subito della gravità (ma come potevo?) di quel veleno, ne avremmo parlato un giorno di più. Tanto vale, Seveso sarebbe stata lo stesso una “prima pagina”.…

16 LUGLIO ore 10. Siamo arrivati in quella che sarà la “terra di nessuno”. Il sole picchia di buon ora. Fa caldo. In maniche di camicia sia io che Pierino abbiamo percorso le strade polverose della cittadina che venivano bagnate da un’autopompa dei vigili del fuoco. Non sapevamo cosa fosse veramente accaduto.

La prima persona che abbiamo incontrato è stata Pierina Secliati, una casalinga che ci ha parlato di strane macchioline, i bambini infatti ce le hanno mostrate sul loro corpo. Più avanti Elia Baggio ci ha fatto vedere i suoi conigli morti, mentre operai dell’ICMESA, guidati da Antonio Chiappini stavano piantando i palio sui quali doveva apparire il cartello “zona infestata” e che doveva delimitare una fetta di terra ben precisa. Fu proprio allora che cominciammo a sentire, percorrendo via Carlo Porta, De Amicis, Fogazzaro, Grossi ed altre, un non so che di deprimente.

L’aria era diventata di colpo irrespirabile, diversa dalla solita pur puzzolente e maleodorante alla quale ci hanno abituati le “nostre” ciminiere.
Sentivo anche uno strano prurito alla schiena e mi ero accorto che anche Pierino sfregava contro lo schienale della sua auto. Osservammo meglio gli alberi: un brivido (non sarà l’ultimo!) ci è corso giù, lungo la schiena sudata per il gran caldo.

Le foglie ingiallite e piegate sembravano addormentate, il verde era come bruciato, i tronchi d’albero accatastati davanti ad una segheria erano imbiancati e così pure la boscaglia lungo il Certesa.
Eppure questo era sempre stato un territorio dove il terreno era fertile. Ora tutto sembrava “morto”.

Qualcosa come un presentimento mi diceva che mi trovavo in un ambiente irreale.

Me ne resi conto quando, verso mezzogiorno, arrivai alla casetta dei Senno. All’apparire di una bimbetta, Alice, deformata e con un visino inumano ho imprecato arrabbiandomi con la madre Giuseppina, la nonna (la povera donna morirà pochi mesi dopo per un tumore).
Quando mi riferirono che il medico aveva prescritto per la bambina una pomata da spalmare sul viso in attesa di conoscere di cosa si trattasse, trasecolai. Era incredibile che a distanza di una settimana si potesse prendere alla leggera le condizioni della bimba.
Mi sono arrabbiato tanto che Chiappini si è avvicinato chiedendomi il motivo.
In quel momento avevo perso il controllo dei nervi tanto forte era la tensione per quello che vedevo.
Sono ritornato all’auto e mi sono diretto all’ICMESA, dove ho chiesto di parlare al direttore; ho fatto anticamera e sono stato “licenziato” senza essere ricevuto.
Non essendo abituato a certe risposte mi è venuto istintivo di invitare il fido Pierino a fotografare la fabbrica all’esterno. In quel momento mi si è avvicinato un signore, ben messo e anche ben vestito che voleva conoscere cosa facevamo. Con aria da bonaccione ci ha invitati a desistere.
Non è necessario – diceva – è una cosa da nulla, non ne vale la pena parlarne”. Se ne varrà la pena o meno – ho risposto – sarò io a dirlo. Sono venuto poi a sapere che si trattava del ragionier A. Marcolini, il tipico dirigente amministrativo accomodante.

Nel pomeriggio mentre stavo scrivendo il pezzo mi resi conto che qualcosa non convinceva, in poche ore mi ero fatto l’idea di una situazione che non andava presa alla leggera.
La mia esperienza mi aveva posto in allarme….

Proprio tutti dunque avevano preso alla leggera quella vicenda, ma ormai la frittata era fatta. Alle ore 18 Francesco Rocca era nella zona “infestata” e si rendeva conto delle condizioni dei bambini investiti dalla nube.
Poco dopo accorrevano le prime ambulanze per trasportare all’ospedale di Mariano Comense questi piccoli. Per Seveso era l’inizio del dramma.

Dal libro “Seveso la tragedia della diossina” di M. Galimberti, G. Citterio, L. Losa e F. Cantù – I giorni della tragedia, di Mario Galimberti